21 dicembre


Ho sempre preferito l’albero di Natale al presepio. Anche se potrà sembrare politicamente scorretto, trovo che i presepi rappresentino un qualcosa di immobile. Pastori, Magi, Giuseppe e Maria, bue e asinello messi l’uno in diagonale rispetto all’altro, tutte queste cose stanno lì per non essere toccate fino alla Befana (in realtà il presepe gode di una sua segreta vita spericolata, con crolli di greggi di pecore giù dalla collina o pastori azzoppati dai Natali precedenti e appoggiati instabilmente a un ponte accanto alla Lavandaia, senza la quale il ponte suddetto non ha modo di confutare la sua esistenza). Oltretutto la carta che dovrebbe rappresentare il tipico suolo palestinese –sassi, ciuffi d’erba riarsa e quant’altro- è fatta apposta per far crollare un’altra volta le pecore che sono state fatte transumare dalla collina alla pianura per disperazione. Poi c’è un problema, per così dire, meteorologico. Quando allestivo il presepio –e una volta sono anche riuscita a farlo su tre piani diversi- mi chiedevo che tempo potesse fare in Palestina il 24 dicembre, perchè se per ipotesi faceva freddo come potevo conciliare il cotone idrofilo usato per fare la neve con le palme ai lati della grotta? E i fiumi, gioia e dolore dei presepisti, quanti affluenti bisogna progettare per quanti ponticelli che poi tutti questi affluenti dovevano necessariamente sfociare in una cascata (con l’installazione a tre piani ne usciva fuori quella dell’Iguaçù) Insomma, tanti problemi che mi hanno alla fine portato ad allestire solo l’albero di Natale.

L’albero è più democratico, è accomodante, si lascia piegare in più parti per entrare nella sua scatola, si perde gli aghi, gli vengono riattaccati e non dice niente, si lascia bruciacchiare i rametti con il calore delle lucine intermittenti – quelle che si dovrebbero sostituire con altre lucine di ricambio una volta fulminate, dovrebbero –.L’albero sopporta: puntali che hanno conosciuto tempi migliori (quando alla UPIM le decorazioni avevano il marchio NATALE MAGIC FLASH stampato sopra e nessuno si accorgeva dell’errore grammaticale); palle di plastica con il fermaglio perduto in Australia appese con il laccetto servito a chiudere la confezione del pane in cassetta; babbini natale danzanti e scimmiette regalo di antiche merendine; ghirlande spelacchiate con lo stesso appeal di una vecchia diva sul viale del tramonto; e su tutto, la massa incombente dei CAPELLI D’ANGELO. No, non la pasta, ma quelle frange lunghissime e luccicanti che sembrano sipari presi in prestito a qualche palcoscenico equivoco. Quando, dopo essere stato aperto, decorato, riempito e pimpato a dovere, l’albero viene lentamente trascinato per il corridoio fino a raggiungere l’altro lato della casa. Qui viene sollevato afferrando con mossa scaltra un punto ben preciso del fusto e posto sul tavolino di vetro che fino a cinque minuti prima era il regno incontrastato di un vaso di ceramica con una donna nuda dipinta sopra, sia davanti che dietro (ricordo che mia zia voltava sempre quel vaso in modo da non mostrare il “davanti” della donna). Lì rimarrà fino al 6 gennaio, quando –e già al cinque comincia l’angoscia- si dovranno ripetere tutte le operazioni del 21 dicembre ALL’INVERSO, e soprattutto ripiegare e rimettere il pino –marca ITALPINO- nella scatola, e rimettere questa nell’armadio. Operazione molto simile a quella di legare un vitello durante un rodeo, perché il finto pino ha come sempre assaporato a Natale i suoi Glory Days e non vuole rientrare nella scatola, e si difende facendoti scattare un ramo in piena faccia. Alla fine il pino è messo in condizione di non nuocere con una buona dose di nastro da pacchi. Si dibatte ancora un po’ mugolando nell’armadio. Al prossimo Natale.

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