Il potere della parola

"Ricordate, Sir: tre lampi, poi rosso fisso: siete in diretta"


Vedere Il discorso del re (2010, Tom Hooper) all'arena sotto casa fa un certo effetto.  Non solo perché i film proiettati in uno spazio aperto hanno un'acustica molto particolare - si mescolano alla pellicola il fruscìo degli alberi che circondano lo schermo, gli stridii dei tram in lontananza, il sonoro dell'altro film che stanno proiettando dall'altra parte della piazza, a volte un aereoplano sopra le teste degli spettatori - ma perchè la stessa proiezione "esterna" esalta ancora di più il perno su cui gira questo film. La storia, finora tenuta segreta dalla famiglia reale, del principe Albert, Duca di York e secondo figlio di re Giorgio V d'Inghilterra, incapace di tenere un discorso in pubblico per via della sua balbuzie, e del suo rapporto con Lionel Logue, ex-attore fallito e terapeuta del linguaggio che lo aiuterà ad avere le parole che gli servono per guidare la Gran Bretagna nella Seconda Guerra Mondiale,  non è tanto un film sulla Storia e sugli uomini che hanno contribuito a farla, quanto sulla Parola e sulla sua importanza nella comunicazione moderna. Anche se noi riteniamo di vivere in un mondo d'immagini, in realtà nei secoli passati la comunicazione iconica - religiosa e non - era molto più importante per farsi comprendere dai popoli, dato che pochi sapevano leggere e ancor meno possedevano libri. Il discorso del re si apre con il dettaglio di un microfono della BBC


 del 1925, che apre a sua volta sulla minuziosa preparazione personale del presentatore del discorso del principe Albert duca di York alla nazione.



Come se il pretendente al trono fosse il tramite, e non l'aspetto principale della comunicazione. Importante è il dialogo fra il vecchio re Giorgio V e il balbettante figlio: il primo deplora che ormai un re debba per forza "saper parlare", avere capacità comunicative da guitto , invece di regnare come un tempo solo in base alla presenza fisica (e Albert gli risponde con una frase che viene normalmente attribuita all'attuale regina Elisabetta II : Noi siamo una ditta.) Lionel Logue ce lo mostrano all'inizio mentre tenta, senza successo,  di passare un provino per la messinscena del Riccardo III di Shakespeare. Egli sta per declamare il famoso inizio del dramma, quello dell'inverno del nostro scontento , ma viene subito zittito dal regista che gli dice di volere un interprete più giovane, e soprattutto più regale (Logue è australiano, e qui c'è tutta la protervia inglese nei confronti delle colonie oltreoceano). E'in questo punto che si compie il destino dei due uomini: il re diventerà, al contrario di quanto accade in Amleto, l'interprete dell'attore, sarà lui a recitare la parte che all'attore non hanno permesso di fare. E le parole del discorso del re, nella scena finale, andranno per tutto il Regno Unito compresi i paesi dell' Impero britannico, in una sequenza classica sottolineata  dal secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, dove ognuno, in ogni casa e in ogni Paese, sta davanti a un apparecchio radiofonico ad ascoltare l'entrata in guerra dell'Inghilterra nel 1939.



Quindi il re è diventato finalmente, dopo lungo travaglio, un attore che recita la parte del re. La parola, osteggiata dalle circostanze, esce fuori e definisce per la prima volta un uomo e il ruolo che deve avere nella Storia salvandone contemporaneamente un altro dalla mancanza di un palcoscenico. Tutto questo fra i tram che sferragliano, le fronde che stormiscono e i gusci di cioccolato fondente delle Bomboniere crepitanti fra i denti degli spettatori.




Un documento storico: il discorso del re tenuto il 3 settembre 1939. Qui la trascrizione:

In this grave hour, perhaps the most fateful in our history, I send to every household of my peoples, both at home and overseas, this message, spoken as I were able to cross your threshold and speak to you myself.
For the second time in the lives of most of us we are at war. Over and over again we have tried to find a peaceful way out of the differences between ourselves and those who are now our enemies. But it has been in vain. We have been forced into a conflict. For we are called, with our allies, to meet the challenge of a principle which, if it were to prevail, would be fatal to any civilized order in the world.


It is the principle which permits a state, in the selfish pursuit of power, to disregard its treaties and its solemn pledges; which sanctions the use of force, or threat of force, against the sovereignty and independence of other states.
Such a principle, stripped of all its disguise, is surely the mere primitive doctrine that might is right; and if this principle were established throughout the world, the freedom of our own country and of the whole of the British Commonwealth of Nations would be in danger. But far more than this - the peoples of the world would be kept in the bondage of fear, and all hopes of settled peace and of security of justice and liberty among nations would be ended.
This is the ultimate issue which confronts us. For the sake of all that we ourselves hold dear, and of the world order and peace, it is unthinkable that we should refuse to meet the challenge.
It is to this high purpose that I now call my people at home and my peoples across the seas, who will make our cause their own. I ask them to stand calm, firm and united in this time of trial. The task will be hard. There may be dark days ahead, and war can no longer be confined to the battlefield. But we can only do the right as we see the right, and reverently commit our cause to God.
If one and all we keep resolutely faithful to it, ready for whatever service or sacrifice it may demand, then, with God's help, we shall prevail.
May He bless us and keep us all.

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