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Egokid: Girls&Boys revisited

La copertina del singolo Girls&Boys dei Blur, ricavata dall'illustrazione di una scatola di profilattici.


E' molto difficile tradurre una canzone, infatti il più delle volte o si lascia (il pezzo resta così com'è), o si raddoppia (il pezzo ha un testo nuovo che non ci azzecca nulla con quello originale). Sono stati fatti deglii sforzi paurosi con alcune canzoni cosiddette "d'autore" - anche perché :1) gli autori originali o chi per loro vigilavano e poco avrebbero gradito eventuali sconciamenti dei loro testi, 2) il pubblico delle suddette canzoni, essendo queste d'autore, si sarebbe accorto subito del tradimento.


E' molto difficile tradurre una canzone dei Blur.


Girls&Boys , tratta dal loro terzo album Parklife del 1994,
è il ritratto della gioventù britannica common in trasferta vacanziera sulle coste del Mediterraneo; un ritratto ben poco lusinghiero, dato che si parla di un gregge umano (herd) che transuma in Grecia, ha tanti pensieri quante sono le dita di una mano (count your thoughts on 1 2 3 4 5 fingers) e soprattutto si dà a rapporti promiscui "chi c'è c'è" (il famoso refrain girls who are boys / who like boys to be girls / who do boys like they're girls / who do girls like they're boys ) . Tutto il testo è sottilmente ambiguo, come si nota già nei primi due versi:


Street's like a jungle

So call the police


Fuori è una giungla

Chiamate la polizia, allora


Può essere una constatazione oppure un richiamo ironico ai cosiddetti benpensanti (signora mia per strada non si circola più) . L'amore nei '90 è una cosa da paranoia


Love in the '90's

Is paranoid


per cui bisogna stare attenti una volta al mare:


On sunny beaches

Take your chances looking for


E' un consiglio serio oppure l'istantanea di un modo di pensare di quegli anni ( timore dei nasty blisters, o Herpes simplex) ? Amore e disgusto s'inseguono vorticosamente per tutta la canzone, dopo i blisters arriva una frase da manuale di conversazione per rimorchio (sezione tedesca):


Du bist sehr schoen

Come sei carino/a


Seguita da un classico


But we haven't been introduced

Ma non ci hanno ancora presentati


E ricomincia la giostra girls who are boys / who like boys to be... , esaltata da un suono discordante e ansimante, simile appunto a quello di una giostra indifferente a tutto.

Insomma, Girls&Boys combina l'allegria disperata di un Tutti ar mare in salsa britannica con la spietatezza di chi sa che la vacanza è finita da un pezzo.

I Pet Shop Boys ne fecero un travolgente remix nel '94, con tanto di girls! boys! di incitamento:





Passano gli anni, e nel 2011 il gruppo degli Egokid riprende per il suo ultimo album (il secondo in italiano, - gli altri tre invece sono in inglese - ) proprio l'inno vacanziero dei Blur. Molto sagacemente però, invece di optare per una semplice cover - è un po' difficile trasferire in un contesto italiano, dove fin da Alessandria si sente il mare, il senso di spaesamento e insieme di rilassatezza di costumi che hanno tanti inglesi quando tutti insieme svernano in climi più caldi - , gli Egokid hanno deciso per un upgrade del testo.

La traduzione è fedelissima alla struttura del testo di partenza, e rispetta anche gli stress originali a costo di spostare gli accenti sulle parole italiane (una tecnica molto usata da Maurizio Bianconi dei Baustelle):


La strada è una giungla

Dov'è la polizia

Quest' èstate andremo

In Turchia


(Non in Grecia)


Per le vacanze



Anni 2000

L'amore è paranoia

In spiaggia al sole


(Qui comincia a differire il testo)

Con gli eroi


La mia occasione


Ràgazze ballo

Con ràgazzi che

Sono ràgazze dentro

Ragazzi, non so

Come fare per farmi amare da te?



Da girls who are boys who like boys to be girls, che indica una situazione collettiva in cui è il gruppo - come un immensa ameba sessuata che la fa da padrona sulle spiagge assolate - si passa a un individuo che fraternizza con altri individui, i quali nascondono diverse identità sessuali dentro di loro come bambole matrioska. Dall'estasi collettiva da volo charter al viaggio personalizzato in cerca di nuovi orizzonti; non a caso la frase di chiusura del refrain nei Blur era :


Always should be someone you really love

Sempre ci dovrebbe essere qualcuno da amare veramente


che funziona sia da conclusione alla frenetica attività dei britannici in vacanza, sia come critica alla succitata attività, laddove invece


come fare per farmi amare da te?


suona come un prego vuol ballare con me? detto ad UNO fra la moltitudine di altri vacanzieri. Anche il giro di basso a questo punto cambia leggermente e non si ripete più in modo ossessivo, facendo saltare in parte l'impianto originario del pezzo che basava la sua disperazione sulla ripetizione.


Kevin Godley, il regista del video di Girls&Boys, disse a suo tempo che questo video era come la pagina 3 di un tabloid inglese (Page 3 rubbish) - la pagina 3 è quella con le donne nude - . In effetti l'effetto è volutamente grezzo, con la band che performa sullo sfondo di un documentario di gente in un villaggio vacanze con tanto di animatori a bordo piscina. L'atteggiamento di Damon Albarn e soci è distaccato e didascalico allo stesso tempo, (a 1:46 nel citare i nasty blisters Damon s'infila un dito in bocca) :





in realtà i primi ventisei secondi del video (corrispondenti all'introduzione della canzone) sono ispirati direttamente alla "cura Ludovico" di Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1971): immagini di vacanze coatte e da coatti come cura contro il conformismo.








Gli Egokid partono da una premessa differente: la vacanza come rivelazione del nostro io più autentico. L'amore negli anni 2000 è paranoia, ma si può cogliere l'occasione andando in spiaggia "con gli eroi" ( alla tuta marca Fila di Damon Albarn oppongono maxigonne nere con camicie da smoking, a metà strada fra un derviscio e un cabarettista anni '30 en travesti ):






Forse gli Oasis avrebbero trovato gli Egokid più simpatici dei Blur...



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Non sono il Messia!






"Ma chi vuoi che ci creda..."

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Morte di un piccione



Un famoso cortometraggio della Pixar, Pennuti spennati (For The Birds), 2000


Il 15 aprile trovo un piccione accovacciato sul davanzale. E' in grave stato di salute, non riesce a volare, non muove più il collo, cammina appena. Visto che un altro piccione lo aveva scambiato per una femmina consenziente e tentava di montargli sopra, lo prendo fra le mani (si lascia prendere, brutto segno), e lo porto dentro casa, dove cerco di preparargli un riparo in una scatola di scarpe con delle strisce di giornale dentro. Tento anche di nutrirlo con delle briciole di pane, chicchi di riso, quello che trovo in casa. Gli lascio un sottovaso pieno d'acqua. Dopo un po' lo trovo rannicchiato sotto al pianoforte. Respira pesantemente, gonfiando il gozzo e tenendo il capino calcato nel collo. Gli occhi sono neri, fondi, sembra non vedano più. Negli altri momenti della giornata lo vediamo spostarsi ed accovacciarsi sotto alla credenza accanto al muro, o accanto al divano. Così fino a sera.
La mattina seguente lo trovo nel breve spazio fra il divano e la poltrona, morto.
La scatola di scarpe è ora la sua bara.

Questo è un resoconto immaginario dei suoi ultimi momenti di vita.

Buio.
Me ne sto qui al caldo, in un posto che credo di ricordare.
Sono stanco, non ho fame. Perché non ho fame?
Non voglio volare. Perché non voglio volare?

Prima c'era più luce, ero fuori, c'era uno che mi svolazzava intorno, chiamava, gridava, mi voleva montare sopra. Io mi sono acquattato per terra, non riuscivo più a difendermi, scappare, volare via.

Poi mi hanno preso.

Quelli grandi, quelli che non volano.
Io volevo vascondermi, avevo trovato un posto in mezzo a tante cose, c'era odore di piume, mi hanno preso anche lì. Mi sono sentito sollevato anche se non volavo. Mi hanno messo in uno strano posto, vedevo ancora la luce ma non sentivo più l'odore dell'aria aperta. C'erano altri odori che non capivo, altri rumori. Questo posto era stretto, chiuso da tutte le parti e aperto sopra. Io mi sono seduto (ero stanco, come ero stanco) ed ho aspettato. Credo di essermi addormentato. Al risveglio ero ancora lì, e sentivo che quelli erano vicini a me. Io sono uscito a fatica, non riuscivo a muovere le ali, non riuscivo a muovere il collo, prima una zampa, poi l'altra. Ho visto un posto scuro, lucido. Mi sono messo lì. Non sapevo dove andare, era tutto nuovo, non c'era nessuno. Poi di nuovo le voci, quelli sono tornati! Mi sono rintanato dove sentivo che il nero era più fondo, ho insaccato la testa nel collo, gonfiato le piume, e poi ho aspettato. Ho sentito un forte odore di briciole, avrei voluto andarle a prendere, ma il collo non si muoveva. Mi sono venuti a prendere, ho sentito che mi stringevano le ali, sono stato trasportato su una superficie bianca - almeno credo, non vedevo più tanto bene. -
L'odore di quelli era sempre più forte, li sentivo respirare vicino. Avrei voluto fare un salto e ritornare nel buio, così tutto sarebbe finito; mi sono svegliato e mi sono ritovato un'altra volta nel posto stretto e chiuso e aperto sopra.
Accanto sentivo, credevo di sentire, l'odore delle briciole del pane. Ho cercato di ricordare quando questo odore mi guidava verso il cibo, mi faceva andare in picchiata - apri le ali, annusa il vento, sporgi e allunga il collo, tira dentro le zampe, ora sei vicino, scarta a sinistra o finisci addosso al muro, metti le zampe avanti, ripiega le ali, atterra, chi è il bastardo che ha GIA' mangiato tutto? -
Ho tirato fuori una zampa, poi l'altra. Cercando lo spazio che avevo intravisto prima, ho girato intorno a un muro buio, poi a sinistra, poi a destra. Sono vicino al posto scuro e lucido di prima, sto per raggiungerlo, ma no, ora mi voglio riposare in questo angolo tranquillo.

Forse è meglio che stare fuori, ci sono quelle cose nere che girano sempre e ti schiacciano e non ti muovi più (ho visto mia moglie finire così, credo).

Tutto quello che devo fare ora è stare tranquillo, anche se è tutto scuro fuori sono al caldo, quando sentirò la luce avrò la forza di mangiare e di volare ancora.

Ancora.

E quelli mi faranno uscire fuori all'aria.

Ancora.

E beccherò la testa di quel bastardo che non mi lascia in pace.

Ancora.

Buio.

Luce

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Il tram della domenica sera

ROMA nuovo capolinea tranviario alla stazione TERMINI

Il nuovo capolinea dei tram alla Stazione Termini - Roma (foto Alefilobus) (Aaaaargh! Un fantasma attraversa la strada!)

Precedentemente avevo segnalato come le diverse linee urbane avessero una loro personalità. La domenica sera il tram che arriva alla Stazione Termini (Attèrmini per gli indigeni) per poi ripartire direzione Porta Maggiore e Prenestina non ha una personalità, o meglio, soffre di un disturbo di personalità. Tanto per cominciare, i tram la domenica sera non ci sono. Non è che non ci sono veramente, è che il servizio è molto ridotto, così i passeggeri (no: i clienti) attendono sotto la pensilina del nuovo capolinea, dotato delle famose panchine mezzachiappa, progettate per impedire a chicchessia di fare di esse il proprio posto letto. La domenica sera però la maggior parte della gente sta in piedi e occupa tutta la pensilina. Venendo da altri mezzi a Termini, ci si può fare un'idea su da quanto tempo si sta aspettando il tram contando le persone in attesa e quante di esse hanno tirato già fuori il cellulare. Nei pochi metri della banchina confluisce un'umanità altamente rappresentativa del mondo intero, dalle ucraine coi capelli corti, ricci e biondi alle bande di teenagers filippini in stile hip-hop. Un altro gruppo presente è quello degli studenti fuorisede che tornano dalle loro città di provenienza con trolley rigidi con almeno una borsa sopra. Si riconoscono dai turisti con lo stesso trolley perchè tendono ad avere vestiti non "da vacanza" , ma estremamente urbani (gli stivali e il trench corto sono ancora d'obbligo per le ragazze) . Si aggiungono gli africani con il borsone - e questo particolare del borsone-vu'cumprà è talmente introiettato nella gente che ho sentito una signora rivolgersi a un ragazzo con uno "scendi con quel borsone", mentre lui aveva una semplice cartella. Si aggiungono anche acune signorine africane con le extensions intrecciate seguite da un boato: quello delle comitive dei giovani turisti in ciabatte che ritornano in albergo, già gasati e pronti a uscire di nuovo per la serata. Più in basso, le signore peruviane con i figli che hanno i regalini e i palloncini ricordo di MacDonald, e le donne che evidentemente hanno lasciato pezzi di famiglia a casa e stanno disperatamente cercando di raggiungerli via cellulare. Ad altri il cellulare non serve, anche perché hanno uno smartphone da cui consultano playlist con le orecchie ben nascoste dalle cuffie (ora si DEVE VEDERE che si ascolta musica, quindi non rompete).

Il problema,a questo punto della serata, non è più il tram che non passa, ma il momento in cui passerà.

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Glicini alla riscossa


Il glicine più esteso al mondo, nella Sierra Madre (Contea di Los Angeles, California): 118 anni, 0.4 ettari e 250 tonnellate di peso!


La Wisteria Sinensis , nota anche come Glicine , è una delle piante rampicanti che rende perfettamente l'idea di come la Natura possa trasformare un organismo vivente. Nelle altre stagioni il glicine si presenta come un groviglio di rami dalle radici che corrono sottoterra e scalzano via le altre piante, le cancellate e pure l'asfalto. A primavera la trasformazione.

Nel giro di due giorni le famose infiorescenze lilla - ma possono essere di altri colori - riempiono ogni spazio tessuto dai rami, e il profumo si percepisce al di là dei tubi di scappamento delle auto. Qui alcune immagini riprese in via Tiburtina:


Queste altre sono state riprese in zona Porta Pia - Nomentano: Chi mi segnala altri glicini a Roma?

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Pulizie di primavera


La camera da pranzo della casa dei fratelli Collyer, a New York, come venne trovata dalla polizia nel 1947.



Il primo di aprile è passato, ma la notizia che più si avvicina ad un pesce d'aprile è di tre giorni fa.

Riguarda un pensionato del Tuscolano (ampio quartiere a Sud-Est di Roma) che ha riempito di ogni genere di spazzatura la sua casa, di cui è comproprietario, e anche le sue due macchine. La polizia municipale si è trovata di fronte a tre tonnellate di rifiuti che occupavano ogni angolo della casa. Non c'era corrente elettrica, e le Forze dell'Ordine hanno dovuto strisciare al buio sopra e sotto cumuli di cianfrusaglie. E'stato stimato che ci vorranno almeno cinque giorni soltanto per portare tutti i rifiuti fuori dalla casa.

Il grave disturbo di cui soffre il pensionato è la disposofobia, ossia l'imprescindibile impulso ad accumulare oggetti di ogni tipo - anche se non servono - fno al punto da non potersi più muovere dentro casa. In inglese viene chiamata anche hoarding disorder (lett. "Sindrome dell'accumulo"). Questo disturbo può sembrare suggestivo, ma nella realtà dei fatti è un vero inferno per i parenti e i vicini di casa della persona accumulatrice (una testimonianza in questo blog); a New York è diventata leggenda la tragedia dei due fratelli Homer e Langley Collyer, rampolli di una famiglia benestante della New York d'inizio '900: alla morte dei genitori, i due fratelli si chiusero sempre di più nella casa di famiglia riempiendola di qualunque cosa riuscissero a trovare in giro, tanto che nel 1947 trovarono alla fine il cadavere smangiucchiato dai topi di Langley sotto una catasta di oggetti (Homer, l'altro fratello, paralizzato e cieco, era morto diversi giorni prima di fame). Il grande scrittore americano E. L. Doctorow ne ha tratto spunto per un romanzo, Homer & Langley, ispirato alla vita dei due fratelli newyorkesi. A ben ragione: c'è infatti qualcosa in questa malattia di sinistramente affascinante, forse perchè uno dei pilastri dell'umanità è proprio quello di accatastare tutti gli oggetti che possano avere un qualche significato per il nostro vissuto (dalle statuine nelle tombe egizie che simboleggiavano la vita quotidiana al ruolo che hanno i musei nella cultura moderna). Senza scomodare la Terra Desolata di T.S. Eliot (Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine), se un centinaio di oggetti su cui inciampiamo in casa ci fa vivere meglio, perché non un migliaio? Ricordo che in un reparto Medicina dell'ospedale Umberto I -dove tanti anni fa fu ricoverata mia nonna - c'era una vecchietta che tutti chiamavano "ragnetto", perché camminava a gambe larghe (pare che la sua deformità fosse dovuta ad un avvelenamento da candeggina ingerita da giovane). Questa paziente aveva una particolarità: conservava tutte le mozzarelle che le venivano date durante i pasti. Quando morì, trovarono il suo tesoro caseario dentro al comodino: decine di mozzarelle andate a male. Il ricordo della vecchietta mozzarellomane mi ha sempre perseguitato durante tutti questi anni, e solo ora posso inquadrarlo come un caso ospedaliero di disposofobia. In realtà c'è un po' di questo disturbo in tutti noi, che tendiamo dopo un po' di vita trascorsa a "museificare" le nostre vite, come se senza tanti oggetti accanto non riuscissimo a lasciare nessuna traccia sulla Terra. La sequenza finale di Quarto Potere (Orson Welles, 1941) con la visione dall'alto di tutti gli averi di Charles Foster Kane è una versione epica della disposofobia, e la sola cosa importante ("Rosebud") finirà dentro al camino senza che nessuno dei presenti se ne accorga.



Un altro film, questa volta comico, o meglio grottesco, porta lo hoarding a livelli parossistici: Nient'altro che guai (Nothing But Trouble, 1991) di Dan Aykroyd. Questa pellicola ha avuto uno scarso successo di pubblico e critica, e obbiettivamente non è molto riuscita, ma trae la sua forza proprio dalla sua sgangheratezza, e oggi può essere vista come un inno all'accaparramento compulsivo. Si veda ad esempio la scena in cui il banchiere Chevy Chase e l'avvocatessa Demi Moore cercano di fuggire dalla casa maledetta del perfido giudice ultracentenario Valkenheiser di Valkenvania (un Dan Aykroyd sotto tonnellate di trucco)



Insomma, la disposofobia è dentro di noi, frenata a stento dai mobiletti portatutto Ikea, e aspetta solo un cenno per esplodere.