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Il mondo da una barella

"Permessoooo!"



Mattina del 27. Giorno dopo S. Stefano, di solito dedicato a tutte quelle faccende che si preferisce rimandare a dopo Natale. La sera precedente non chiudo occhio a causa di un forte dolore al fianco sinistro. Faccio colazione e prendo subito dopo una bustina di antidolorifico, certa che il dolore passerà. 
Faccio tre passi e sento una fucilata nel cervello. 
Altri tre passi e mi aggrappo al primo mobile davanti a me. 
Non riesco ad urlare, apro solo la bocca per svariati lunghissimi secondi. Quando la chiudo, mi ritrovo con la gamba sinistra che non si può muovere senza produrre stilettate di dolore. 

 Provo a ritornare a letto. Non riesco più a trovare una posizione per far tacere le stilettate. mentre il letto si disfa sempre più, prendo una decisione: chiamo l'ambulanza col 118.
Quando arrivano, io quasi mi vergogno, mentre il medico e i portantini entrano in casa (avevo detto a mio fratello di mettersi davanti alla porta per aprire), di far vedere loro la stanza in disordine, ma tant'è, saranno abituati a scene peggiori. Dopo alcune domande atte a riempire il modulo per l'ospedale, mi spostano in due - non posso muovermidel tutto, lo ricordo ancora - e mi accompagnano all'ascensore e quindi all'ambulanza.
All'interno dell'ambulanza, il medico mi dice di trovare una posizione in modo da sentire meno dolore possibile. Questo è un particolare inportante, dato che in quella posizione sarò destinata a rimanerci per un bel po'.
Vedo la strada scorrere dalle finestre dell'ambulanza, e mi viene in mente che l'ultima volta che sono salita sopra un veicolo del genere fu quando dovetti accompagnare mia madre all'hospice per l'ultima degenza della sua vita. Anche il tempo -soleggiato invernale - era lo stesso. Una ventata di freddo annuncia la vine del viaggio e il trasbordo al Pronto Soccorso.

Dall'atrio passo al corridoio, sfiorando altre barelle ed altri destini. 
Vedere il mondo dalla barella consente di avere due prospettive: la prima, quella degli altri pazienti che essendo anche loro in barella sono al tuo stesso livello e si attorcigliano come te in lenzuola, giacconi e coperte. Vengono ricoverate le signore anziane, e tutte sono rigide con il cappotto imbottito la loro borsa sulla pancia e qualcuna anche la permanente, ma ogni cosa sembra priva di senso, come se qualcuno avesse fatto loro uno scherzo. Gli uomini invece stanno perlopiù scomposti e intenti a telefonare a qualcuno (Aò, ciò 'r ginocchio come 'na zampogna!), comunque sembrano più a loro agio nel Corridoio dell'Attesa. Sì, perchè si tratta di
ATTENDERE.

Anni e anni di telefilm ospedalieri hanno inculcato nei pazienti il terrore dell' Evento: l'incidente che fa arrivare decine di codici rossi mentre voi siete solamente verdi. Cosicchè ogni volta che si apre la porta che porta al corridoio alcune teste debolmente si alzano. Se riescono a vedere soltanto un braccio e un ginocchio sanguinante e niente flebo, sospirano di sollievo.
Il sentimento dell'attesa fa sì che altre cose abbiano la priorità sulla Vita e la Morte: la prima è quella di trovare un bagno libero e possibilmente praticabile per liberare la vescica (se si è riusciti a farla prima di andare in ospedale sì è già a metà della lotta e non toccano penose richieste di padelle e pappagalli). La seconda riguarda il cibo. Qualunque tipo di cibo va bene nelle prime ventiquattr'ore, e qui tornano buoni eventuali parenti e amici che con un filo di voce vengono spediti al bar o davanti alle macchinette distributrici, e che poi ritornano con la borsa nella mano destra, il resto nella sinistra e i sacchetti di cibo in mezzo ai denti. La bottiglietta d'acqua è un affare serio: si perde nei drappeggi della coperta dell'ospedale e viene ritrovata dagli infermieri quando finalmente smontate dalla barella.



Dov'è la bottiglietta dell'acqua?

 

Incastrati nella barella imparate a distinguere le persone ragionevoli da quelle decisamente fastidiose (a prescindere da ciò che hanno). Quando arrivano donne alte un metro e quarantacinque infilate in giacconi imbottiti informi gli infermieri tremano. Queste donne vengono da situazioni personali a dir poco complicate e non hanno più nulla da perdere: si fiondano nelle stanze o in qualunque bugigattolo dove ritengono operino "idottori" e iniziano a fare domande sui loro parenti assistiti. Se non si dà loro retta o le si invita a restare nel corridoio si ottiene una reazione che va dal Sì, ma come sta al Chiamo i Carabinieri! Se invece si dà loro retta dopo cinque minuti se la prendono con i parenti che sono venute ad assistere (E smettila di gridare!). Dopodichè si rintanano torve su una panca in compagnia della figlia cinquantatreenne, riconoscibile dalla tintura per capelli più bionda e dal giaccone imbottito di una sfumatura più chiara rispetto a quello della madre. La figlia brandisce un cellulare di penultima generazione -la madre ha quello di terz'ultima - facendone gemere i tasti nelle sue manone e chiede aiuto a tutti quanti, zia Adelina e pompe funebri comprese. 
Il personale medico e paramedico sguscia via dalla vostra visuale, e  distinguete chiaramente brandelli di dialogo che vanno dal conteggio di ore di straordinario a quale percentuale di voti ha preso il delegato all'assemblea. Vicino alle feste si scambiano baci, abbracci e domande su chi copre il turno e chi no. Mentre la bottiglietta dell'acqua è arrivata all'altezza del calcagno sinistro e la coperta pencola pericolosa all'esterno vi chiedete quanto potete ancora sopportare quella pinza che stringe e allenta il nervo all'altezza del fianco. Stringete le spondine della barella mentre la signora volontaria vi dice che c'è un codice rosso nella sala visite 1. Voi augurate mentalmente una sincope al codice rosso che si permette di stare al vostro posto in sala visita, e cercate di spostare la coperta un po' più al centro senza cadere di sotto. Quando vi sembra che il risultato sia buono, arrivano due infermieri per trasferirvi su un letto e liberare così la barella per l'ambulanza. Tutto da rifare. Ogni tanto passano esseri sui lettini che non si capisce se sono già morti o no. Quando sembra non esserci più speranza per voi chiamano il vostro nome. Improvvisamente vi sbracciate come un naufrago del Titanic quando vide il Carpathia


 nell'alba gelida dell'Artico. Vi riacchiappano prima che possiate cadere giù dal letto e vi portano in sala visita.
Il dottore ne ha viste tante, e si vede. Avete la sensazione che le pareti della sala visita contengano tutti i dolori di tutti i pazienti della settimana. Mentre gli infermieri vanno e vengono, passate la visita cercando di raccontare con fare disinvolto brandelli della vostra storia clinica (il leitmotiv è: Avete ALLERGIE?) e vi ritrovate in mezzo agli spifferi a correre verso il reparto di Radiologia. Una lastra. Al bacino. Nello stanzone di Radiologia cominciate a sentire il Freddo della malattia. Sono allineate quattro barelle, con quattro donne sopra, una delle quali ha i baffi (Signò, quando màa fate la TAC? - La TAC una è. Lo sapete quanti siete voi? Su, signora bella, non faccia così ). Il vostro turno arriva prima del previsto, e nella stanza delle radiografie vi dovete distendere a pancia in su con le gambe piegate. Facile se si sta bene, un inferno se la pinza non molla il nervo all'esterno del fianco. Il radiologo deve fare un'esame d'inglese, e si lamenta del pessimo accento dei sussidi audio in lingua che deve ascoltare. (Un accentaccio, mio dio...) Il libro lo conosco: è il corso più famoso delle scuole medie e superiori, ricordo ancora la prima vignetta che parlava di un attore di film dell'orrore che nella vita reale amava i fiori e i bambini - oggi una didascalia simile sarebbe improponibile -
Ritornate in superficie e vi piazzano con la barella nel corridoio davanti allo stanzino con la posta pneumatica. E lì fate una scoperta: nello stanzino una vecchina con una testa che sembra una di quelle rimpicciolite della Nuova Guinea vi tiene tutti i suoi averi. Le infermiere tentano di convincere la vecchina a traslocare il suo sacco, e ne segue un'accesa discussione proprio davanti ai vostri piedi. Vorreste dire la vostra fra il rumore dei contenitori della posta che salgono e scendono e gli strepiti della vecchia rimpicciolita, ma nel frattempo avete un attacco di fame. Tirate fuori dalle pieghe della coperta la vostra razione K: un saccetto di patatine. Lo sgranocchiate piano pensando a quante tribù di rimpicciolitori di teste ci sono ancora in giro.

Il dottore vi dice che non ci sono fratture. Però bisognerebbe fare la TAC.

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Il laptop malato

Error

 Reduce da varie vicissitudini private e dalla dipartita contemporanea di due apparecchi televisivi, torno a scrivere su questo blog con una riscrittura del poema di Aldo Palazzeschi del 1909, La fontana malata:


 IL LAPTOP MALATO


Chh, chh, biip
Tuc! Tuc! Tuc! 
Error Error 
Error
E' qui
sul mio tavolo
il povero
laptop
malato
che spasimo!
Sentirlo
Bloccato
S'impalla
s'impalla
un poco 
si blocca...
di nuovo
s'impalla
Mio povero laptop
il virus che hai
il cuore 
mi preme.
Si tace,
il cursore
sta storto
che forse...
che forse
sia morto?
Orrore!
Ah no,
rieccolo
ancora
che trema
sul sito
Chh, chh, biip
Tuc! Tuc! Tuc! 
Error Error 
Error 
Il trojan
l'uccide.
Dio santo
quel suo 
eterno
bloccarsi
mi blocca
ripristino
un poco,
ma dopo...
che strazio!
Ma Habel
Vittoria
correte,
sbloccate
le icone
mi uccide
quel suo
eterno aspettare!
Pulite
l' hard disk
resèttate tutto
per farlo finire
magari...
poi disinstallare.
Explorer!
YouTube!
Non più!
Non più
Mio povero laptop
col malware che hai
finisci vedrai
che infetti
me pure.
Chh, chh, biip
Tuc! Tuc! Tuc! 
Error Error 
Error...

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Il caricabatterie e l'acqua

Non c'è più campo!



Quando si va a trovare un parente, o noi stessi veniamo ricoverati in un ospedale, vi sono due cose assolutamente da non dimenticare.
La prima è il caricabatterie per il telefonino. Questo oggetto ha un'importanza strategica per il soggiorno e lo stato post-dimissionario del paziente. Infatti, la prima cosa che si va a cercare una volta assegnati al letto non è l'infermiera, ma la presa di corrente. Si vedono pazienti con i tubi della flebo, e parenti appresso a loro con la spina del caricabatterie in mano, che cercano in tutta la stanza le prese di corrente. Queste a volte si trovano sopra al letto, accanto alla luce al neon. Altre volte però sono nascoste dai successivi ammodernamenti della stanza, oppure sigillate da un filo collegato al campanello per chiamare gli infermieri. In questo caso le persone in visita esprimono vivace disappunto e tornano il giorno dopo con una prolunga, oppure fanno caricare il cellulare del parente allettato (vuol dire che è stato messo a letto, non che è stato attratto da un'offerta speciale) su qualunque presa riescano a trovare. A volte girano per i corridoi, a volte vanno in sala operatoria e staccano l'impianto luci durante l'operazione pur di attaccare il caricabatterie. Quanto al paziente allettato, una volta caricato il cellulare si accorge che quest'ultimo a volte "prende" e a volte no. Seguono scene penose di gente in pigiama, flebo e cellulare in mano che si incrocia da un punto del corridoio del reparto all'altro con amici e parenti, i quali a loro volta si dirigono nell'angolo opposto a quello dove stanno loro. (Non c'è campo! Due tacche!). Neanche Antonio Meucci faticò così.
La seconda è la bottiglia dell'acqua, o la quest (o viaggio dell'eroe) per essa. Portarne un litro intero non è consigliabile, dato che le bottiglie di plastica grandi tendono a scivolare dalle mani e ad allagare i comodini affogando cellulari e pillole senza pietà fra le bestemmie degli allettati. Si va allora per il formato da 0,75 ml, o "bottiglietta". Questa viene portata con il vassoio del pranzo, ma non è mai fresca, così ci si prepara a un'altra caccia, più metafisica: quella appunto per la bottiglietta. Ci si divide in gruppi di due-tre persone e, se l'ospedale è grande, si cammina da un corridoio all'altro e da un reparto all'altro in cerca di bar semi-nascosti - il "bar dentro l'ospedale" è sempre ricavato da un androne e indicato da cartelli con frecce simili a quelle delle trappole di Vilcoyote nei cartoni animati-.

Al bar i cercatori d'acqua fanno una prima fila fra i camici svolazzanti e ciancicati di medici e dottorandi, poi una seconda fila al bancone tenendo d'occhio l'aiuto barista che deve dare il succo di mirtillo alla dottoressa, tre caffè a tre parenti venuti da Benevento e non far bruciare la pizzetta col prosciutto per l'infermiere. Alla fine la bottiglietta con l'acqua fresca - bicchiere sopra il tappo - viene brandita insieme allo scontrino come il Santo Graal.
Diversamente, i famigerati distributori di bibite e merendine ci vengono incontro. A meno che non funzionino, e lo saprete sempre troppo tardi (il credito è esaurito), questi offrono in larga parte bottigliette di minerale gassata. Solo uno dei tre pulsanti disponibili è collegato a quelle di acqua naturale "leggermente frizzante". Si controlla che la spia accanto al pulsante che rilascia la bottiglietta non sia rossa. E' verde. Si preme il pulsante. Forte.
Allora, funziona questa baracca? Ci si sente chiedere alle nostre spalle.
Un tonfo sordo (l'acqua che cade nella buca) risponde al nostro posto. Noi però aspettiamo con ansia un altro rumore, quello del resto in moneta che scende giù e tintinna nella buchetta in basso a destra, separato dallo sportellino di metallo.
Monete. Improvvisamente comprendiamo Paperon de' Paperoni.


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La famiglia Luiss



Usate la testa!


Sull'autobus linea 90 Express - che collega i quartieri a Nord-Est di Roma alla stazione centrale Termini -  ho visto una cosa che ha dell'incredibile. 
Due ragazzi con i capelli tagliati corti, ma non rasati alla coatta, piuttosto quel taglio che si nota ancora nelle foto in bianco e nero appese alle pareti di alcuni saloni di barbiere non ancora hairstylist . Con il ciuffo moderatamente fonato, i due ragazzi erano in piedi nell'autobus moderatamente pieno. Indossavano entrambi camicie a righine con le maniche lunghe e - dettaglio ancora più incredibile - pantaloni di tela chiara dall'orlo leggermente cascante sulle sneakers, dotati di cintura di corda. Per vedere questo tipo di abbigliamento bisogna andare a pescare nella sezione Teenager del catalogo Postal Market del 1985.



I pantaloni bianchi, con doppi passanti, le tasche a filetto davanti e con la patella dietro...


Uno dei due ragazzi indossava una di quelle borse a tracolla di tela grezza ( più grezza è, più fa fico) con su stampato il logo della LUISS (Libera Internazionale Università degli Studi) e tirava fuori da questa varie brochure e gadget destinati agli studenti - penne, un'agenda con gli anelli a spirale, quaderni, gli adesivi no, quelli li dà La Sapienza -  Non trovo l'orario,  fa lui dolcemente, e solo da questo capiamo che 1) si è iscritto, e 2) gli orari alla LUISS li hanno già dati e stampati. A lato dei due ragazzi sono disposti quelli che per esclusione devono essere i genitori, dato che lui indossa una camicia candida con le maniche lunghe dai polsi slacciati e  risvoltati verso l'alto e pantaloni scuri, mentre lei ha un completo pantalone palazzo in lino bianco stropicciato il cui top è in parte lavorato all'uncinetto, con bigiotteria di pietre e borsa in tinta. Dall'accento di tutti e quattro mi viene da pensare che siano appositamente venuti dal Sud per l'iscrizione del figlio alla LUISS; mi viene anche da pensare alle file che si formano all' Università La Sapienza, dove a nessuno verrebbe in mente di mettersi il lino bianco stropicciato, neanche alle sessioni di laurea. Mentre il 90 X faceva il numero della curva a sinistra immettendosi in via XX Settembre e lasciandosi alle spalle il monumento al bersagliere,



la Famiglia in Bianco e a Righine si preparava a tirar fuori il titolo di viaggio alla vista del controllore (un uomo sulla quarantina dai capelli a tendina). Al capolinea mi preoccupo che qualcuno, scendendo, inavvertitamente li possa urtare e andare in frantumi tutto quel bianco. Ma no: essi passano e guadagnano l'uscita in mezzo a braghe sformate e magliette slonzate, e in un soffio li perdo di vista.
E sottolineo di vista.

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La chiusura dei negozi



Mi capita spesso di dover acquistare qualcosa quando i negozi sono vicini alla chiusura, anzi: quasi sempre. Mi accorgo infatti - nonostante scriva dei veri e propri capolavori di liste della spesa su Post-It gialli - che  manca sempre qualcosa per concludere la giornata. Così scendo di corsa (risalgo subito con il Post-It appiccicato in mano perché magari ho dimenticato i soldi) e varco affannata la soglia del negozio, o del grande magazzino, che sta effettuando le grandi manovre antecedenti alla chiusura.
Nei negozi con molto personale si assiste talvolta ad un fenomeno strano per chi sta dall'altra parte del bancone (il cliente), ma che è abbastanza normale per chi lavori tutti i giorni a contatto con la gente: il lasciarsi andare a battute e lazzi vari con i colleghi. Nei mercati rionali urla e cantate si inseguono in mezzo alla spazzatura lasciata da una giornata di commerci, ma anche nei negozi non si scherza: ho visto farmacisti tetragoni fare battutacce sui preservativi con amici venuti a trovarli ( "Ehii, avete pure quelli per i 'rapporti promiscui'!" ) scambiando ghigni d'intesa fra loro - le colleghe dietro al bancone, seminascoste dall'Amuchina in flaconcini, guardano da un'altra parte. - Nei supermercati le battute fioccano generalmente fra le cassiere e gli addetti all'ortofrutta o alla macelleria. Ho sentito con le mie orecchie uno di loro rivolgersi alla collega single alla cassa proponendosi di presentarla ad eventuali pretendenti, dato che ha notato che negli ultimi giorni lei "cià gli ormoni che je ballano la macarena" . In casi estremi ricorrono al sabotaggio della filodiffusione nel negozio, solitamente settata su Radio Ram Power 102.7 Roma ( "Uno lo ricordi, uno lo vivi" ), piazzando CD con i successi di Celentano. I turisti venuti a fare incetta di superalcolici birra coca e patatine sono così accolti dai 24mila baci e dal tuo bacio che è come un Rock. Infinite poi sono le discussioni fra una cassa e l'altra ( "Lo sai, Vasco Rossi è depresso..." "Non è depresso, ha il male di vivere!" "Ah."  "Busta?" )
In una famosa libreria, un commesso - sempre verso l'ora di chiusura - ha iniziato a ballare sulla musica della filodiffusione nel settore editoria scolastica, da sempre fonte di infinite frustrazioni perchè non puoi nemmeno dare un giudizio letterario sui tomi incellofanati intorno a te ( "Io avevo ordinato quel manuale, non questo..." ). Siccome lo stavo osservando, mi ha apostrofato  dicendomi: sono dodici ore che sto qua dentro, avrò diritto a muovermi un po', no? Gli giurai che non l'avrei riferito a nessuno, nemmeno a quelli che vendono Terre di Mezzo davanti all'entrata. Così sono rimasta a guardare nel reparto educational, piano seminterrato, un uomo danzare solitario fra i dizionari con CD per la pronuncia mentre la filodiffusione trasmetteva la Canzone della Chiusura.

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Lombalgia canaglia

L'inizio della fine


Quando ti alzi dal letto la mattina e senti che il tuo fianco destro appare come quello di San Sebastiano per le fitte che partono dalla zona lombosacrale e arrivano a lambire gli arti inferiori, allora la diagnosi è spietata: o siete stati colpiti nel sonno da indiani con le frecce, o la lombalgia ha ghermito le vostre fasce muscolari. Questo è quel genere di dolore che si sviluppa dopo un certo numero di anni, il famoso "doloretto" che segna lo spartiacque fra la giovinezza e la maturità di una persona. Non si conoscono, ad esempio, casi di rockstar con lombalgia - però guarda caso se hanno superato i 27 anni di età dopo avere fatto gli scongiuri affittano personal trainer e si mettono a installare palestre dentro casa.
Ecco, dopo dieci giorni presi a prendere antifiammatori, il mio modesto contributo ad un male che non può essere usato come scusa elegante (Stanotte no, ho mal di testa) o come pretesto per non lavorare (a quello si prestano più volentieri virus e decesso) :




LOMBALGIA CANAGLIA

ma che cos’è
quel gran dolore
che mi assale
che cos'e'
è qui con me
e questa assurda
fitta al fianco ma perché
ma che cos'e'

ma che cos’è
se fanno aerobica
alla tele in libertà
e che per me
invece c’è
qualcosa al nervo
che non va
che non va

lombalgia
lombalgia canaglia
che ti prende
proprio quando
non vuoi
ti ritrovi
accartocciata
in vestaglia
è un incendio
che non spegni mai
lombalgia
lombalgia canaglia
se per strada
da un amico
o in un bar
sei alle prese
con la fitta
che taglia
se ti giri
poi rimani là

chissà perché
ti muovi a scatti
circospetta
un po’ di più
sempre di più
vai in farmacia
e perdi un po’
dei soldi tuoi
perché lo sai
l’antinfiammante
dura solo
la metà
sì tu lo sai
la staffilata
all’improvviso
tornerà
tornerà

lombalgia
lombalgia canaglia
che ti prende
proprio quando
non vuoi
ti ritrovi
accartocciata
in vestaglia
è un incendio
che non spegni mai
lombalgia
lombalgia canaglia

se per strada
da un amico
o in un bar
sei alle prese
con la fitta
che taglia
se ti giri
poi rimani là

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I cinematografari





"Dopo la TV c'è il cinema, dopo il cinema la radio, e poi la morte..."



Vicino casa vedo spesso i caratteristici camion portattrezzi e furgoni con dentro le rastrelliere con i costumi appesi ognuno ad una gruccia, con il nome dell'attore/trice segnato a penna su un foglietto a quadretti preso da un bloc-notes. A volte i contenuti di questi furgoni escono dalle portiere e invadono gli spazi fra il marciapiede e la zona della strada preposta al parcheggio. Così si vedono ferri da stiro collegati a caldaie a vapore sopra assi da stiro a fiorellini e cavi, cavoni e cavetti collegati ad enormi prese dove non si riesce a distinguere il Maschio dalla Femmina.  

Attorno a questo armamentario fanno la guardia alcuni loschi figuri; si distinguono dai buoni villici del posto per l'atteggiamento che hanno nei confronti del territorio. Stanno seduti sulle seggiole o in piedi avvinghiati ai telefonini a sbracciarsi di qua e di là. Si vede che non hanno il senso dello spazio che possiedono coloro che vivono da tanto tempo in un posto. Stanno con gli occhiali da sole dalla montatura pesante (quelli che vogliono apparire cool) o con i giacconi e la barba di tre giorni. Se chiedi cosa stanno girando, il più delle volte ti rispondono stracchi: una fiction , o il titolo del film con l'aria di dire: che, non lo sai? Si rivolgono ai succitati buoni villici con lo stesso tono che si usa per farsi dare le cose, un misto di pazienza e persuasione coatta. Sembrano sempre in attesa di qualcosa, e in effetti girare una scena comporta al novanta per cento dei casi l'attendere qualcosa o qualcuno. Sono i lavoratori dell'immagine in movimento o, volgarmente (sempre secondo i buoni villici del posto), i cinematografari. Qualche volta hanno la barba di due giorni, a volte i capelli legati dietro con l'elastico, sempre col giaccone.
Un film recentissimo dedicato al mondo di questi operatori - tratto da una serie televisiva che però è andata in onda sul satellite, così l'hanno vista color che sanno - è Boris - Il Film .  La parabola dello sfigatissimo regista Renè Ferretti
che vorrebbe lasciare lo schifoso mondo della fiction a puntate per girare un film di denuncia sulla Casta ma che viene risucchiato dall'ancor più schifoso mondo del cinema e costretto a trasformare l'incendiario script in un cinepanettone pieno di volgarità non è nuovissima come idea .Ogni tanto infatti compare sullo schermo la storia di un regista che vorrebbe fare il film di alto livello ma le cui buone intenzioni sono stoppate dal crudele mondo del cinema commerciale che vorrebbe, appunto, realizzare cose commerciali. Il divertimento di questo tipo di soggetti sta nell'osservare fino a che punto il malcapitato cineasta è disposto a svendersi, e se il film così trasformato avrà successo o no. In Boris vengono descritti nelle loro aberrazioni tutti i componenti di un sistema chiuso che a volte fatica ad  arrivare al grosso pubblico:  il produttore televisivo che ha paura di trattare con le case produttrici "di nicchia", dato che teme di finire per indossare pelosi maglioni girocollo e occhialetti; la Grande Attrice afona-passiva-aggressiva; l'attrice "cagna maledetta" che trova un barlume di recitazione fissando su un foglietto il quesito 8 X 12 ; gli sceneggiatori che fanno scrivere i trattamenti al domestico filippino mentre loro giocano a tennis; il direttore della fotografia che sovraespone e basta e gli altri animali del serraglio del set possono essere goduti appieno solo se si hanno presente coloro ai quali si ispirano (sospetto che fra quelli che hanno visto con me Boris all' Arena di Piazza Vittorio parecchi fossero "del mestiere"). Renè non ha abbastanza - o non gli viene riconosciuto - talento per comandare su tutti, (a differenza di un Pallottole su Broadway dove il talento drammaturgico di un gangster, sia pure in extremis, viene premiato), cosicchè la sua sconfitta morale e artistica a un certo punto viene inconsciamente desiderata. Ed è infine, nel buio della sala fra le mille risate, Natale con la Casta, che mette d'accordo persino i produttori intransigenti col profilo affilato e il golfino blu. Qual è allora la morale della parabola? Che la Concorrenza in realtà si fa concorrenza da sola, purché uno chiuda gli occhi per un attimo? Che l'unico modo di descrivere la Casta è quello sbrindellato dei cinepanettoni?  E 'sti c...? Che il giovane Ratzinger deve correre sul prato al ralenti  con una colonna sonora "emozionante"? Che Gianfranco Fini deve comparire nel film a tutti i costi? Boris - Il Film non accusa nessuna delle fazioni in lotta, fa vedere il cinema italiano dall'interno della casa di Boris: che è un pesce.

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L' importanza della colla d'estate




Un neoprenico vi salverà


Mentre in questi giorni l'umanità sta facendo la colla (come affermavano l'anno scorso le due filosofe di Ostia) non si può fare a meno di notare che l'estate è il periodo dell'anno in cui le scarpe perdono maggiormente i pezzi. Ci si ritrova a camminare sotto il sole lasciando le impronte sull'asfalto e all'improvviso uno dei nostri due piedi avverte un'improvviso senso di libertà. Che è successo? Si è sganciata la scarpa dalla suola, e ora parte della tomaia vaga nel sole di qua e di là. Si torna a casa o strusciando i piedi o a piedi nudi del tutto - quando non si ha voglia di aspettare che la suola ci segua a casa - . Ora non ci si vuole arrrendere al destino cinico e scalzo, e una volta tornati a casa ci si arma di tubetti di colla per riparare il misfatto.
Si comincia col cianoacrilato dato che ci hanno detto che "attacca in otto secondi". Con la scarpa offesa sul tavolo sopra un foglio doppio di giornale - dal quale apprendiamo dandogli una rapida occhiata mentre lo stendiamo che la fine del mondo è assai prossima - tentiamo di aprire il beccucio del tubetto, e qui ci dovrebbe venire in aiuto lo spillo in dotazione. Già una confezione che custodisce uno spillo per aprire il prodotto ha qualcosa di profondamente perverso. Lo spillo buca il diaframma all'interno del beccuccio ed escono dieci gocce in rapida sequenza.
Sulle nostre dita, dato che non facciamo a tempo ad avvicinare il cianoacrilato alla scarpa. Le falangette si attaccano in otto secondi. Con una seconda passata, data con la mano superstite, la parte di tomaia incollata ha ora una striscia lucente sopra, ma non si riesce a farla stare attaccata  alla suola il tempo necessario. Urge allora una colla meno parvenue e più terragna: il neoprenico.
Dotata di una confezione che sfida i secoli a venire come la Coccoina , con il marchio nero su sfondo giallo in un carattere Sans Serif anni '50 (quindi progettato a mano), la colla Artiglio richiede una certa abilità nello spalmarla. Essa non promette paradisi attaccatori in una manciata di secondi: bisogna preparare le due parti da incollare, perché sia veramente efficace.  Quindi accanto alla scarpa lesa occorre avere a portata di mano un po' di carta vetrata a grana fine. Con questa si strofinano le due parti in modo da farle diventare ruvide e più disposte all'incollatura successiva. Questa preparazione ricorda per certi versi i corsi preparatori al matrimonio organizzati da alcune parrocchie: si passa la carta vetrata sui futuri sposi per farli incollare meglio. Dopo la smerigliatura (sperando che il materiale di cui è fatta la scarpa nel frattempo non si sia dissolto) arriva il momento della colla. Dopo averla spalmata sulle due parti, si deve aspettare alcuni secondi prima del momento supremo: l'attaccatura dei lembi. Intanto i vostri polpastrelli sono diventati giallini e appiccicosi (mentre prima erano bianchicci e irrigiditi dal cianoacrilato maledetto), come avveniva con il tubetto di UHU  quando eravate più piccoli.
I due lembi della calzatura sembrano ora al loro posto, manca ora l'elemento più importante: l'Attesa dell'asciugatura della colla. Qui coesistono due scuole di pensiero: quella dell'oggetto incollato posto sotto un grosso peso (Vasi cinesi e zampe sorreggenti organi Bontempi o Farfisa sono i più indicati), e quella della Molletta di Legno che serra le due parti della scarpa . Qualunque sia la vostra scelta, dovete guardare il neoprenico giallo e spumoso mentre si asciuga per almeno dodici ore. La colla Artiglio non fa sconti a nessuno.

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La Notifica (viaggio in tre tempi)


- Posso pagare alla Cassa Veloce?
- NO!



La cartella esattoriale ha una sua vita che si può suddividere in tre tempi:

Primo tempo : arriva una grande busta rettangolare contenente un insieme voluminoso di fogli. Il potere della Gerit fa sì che, ogni qualvolta si notano delle strisce azzurre nel bianco di una busta la gente sbianchi sul pianerottolo. I sei fogli compongono quella che si chiama cartella esattoriale. Nel secondo foglio (la notizia non arriva subito, come si fa invece con i telegrammi di condoglianze) c'è l'importo da pagare. Sopra, in piccolo, a che cosa è dovuto il pagamento. Ogni infrazione ha il suo codice tributo : se compare il numero 5060 è una infrazione al codice stradale che non avete pagato. Nelle pagine seguenti la cartella si affanna a spiegare come e a chi si deve pagare l'importo o come si può eventualmente dilazionarlo. La pagina 11 è lasciata in bianco "per ragioni tecniche di stampa": in realtà è un espediente drammatico per fa tirare idalmente il fiato al lettore e portarlo alla sua catarsi, il bollettino con su stampata la cifra da pagare. Si arriva trafelati al

Secondo tempo : nel caso si abbia bisogno di spiegazioni (in particolare riguardanti multe apparentemente non pagate) si va all'ufficio contravvenzioni di via Ostiense, 131.
Per chi arriva da fuori Roma, via Ostiense inizia dalla Stazione Piramide (da cui si prende il famoso "Trenino" per andare ad Ostia, e quindi al mare). Per il primo tratto è un incrocio fra un viale alberato e una strada ad alta densità di traffico . Via Ostiense ha questa peculiarità: ogni fabbricato sembra costruito apposta accanto ad un altro fabbricato di un'altra epoca, così si alternano balconi bombati anni '30 (al secondo piano, quello nobile) e vetri smerigliati di balconate anni '60 (da uno dei quali si getterà Adriana-Stefania Sandrelli nel finale di Io la conoscevo bene ), fino ad arrivare al Gazometro (simbolo del quartiere Ostiense) e al grande spiazzo che circonda gli ex-Mercati Generali.

Da questo punto in poi, il paesaggio cambia e si arriva al Palazzo della Prefettura, un parallelepipedo grigio con file di vetrate di un grigio più chiaro e sotto le entrate dei vari negozi e supermercati. Una volta entrati si percorre un lungo corridoio che sbuca dietro al palazzo (i Mercati Generali in ricostruzione sullo sfondo), si rientra dentro ad un androne - grigio anch'esso ma meno trionfalistico rispetto all'entrata - e si sale al primo piano.


La Sala Contravvenzioni è là, divisa in due settori: gli Sportelli Informazioni che danno i Numeretti (non fidatevi del diminutivo, perché ogni Numeretto è il corridoio verso la Possibile Risoluzione del Problema), e la Sala con le file di seggiole e il tabellone che dà i numeri, anzi i Numeretti. Ogni tanto si sentono delle urla soffocate miste a rantoli, appartengono a coloro che non vogliono arrendersi al loro Destino (pagare la multa con la mora e gli interessi). L'impiegato-informatore-buttadentro è, assieme alle signorine smistatrici di disgrazie, la figura più importante: a lui si aggrappa con la moglie un signore con la fotocopia della sua targa ripresa dall'autovelox (Non esiste!). Una donna giace accasciata sulla seggiolina accanto, e cerca di attaccare discorso con chi le sta vicino. Il personaggio più temibile è però il Conoscente e tuo occasionale compagno di sventura. Lui osserva il malloppo di fogli con cui ti aggiri, sentenzia "Guarda che le date non coincidono" e poi se ne va richiamato dal Numeretto. L'ora seguente in attesa della chiamata viene trascorsa guardando e riguardando ossessivamente la cartella esattoriale per controllare la storia della contravvenzione (che non è l' Historia de un amor.)

Se alla fine l'addetto/a alla riscossione, dopo attento esame ritiene che sia il caso di andare alla sede Gerit in via Cristoforo Colombo 271, si arriva al



Terzo tempo : si percorre la Colombo che, a differenza della Ostiense, ha una sua mission: convogliare il traffico di Roma Sud da Porta Ardeatina e portarlo con le buone o le cattive verso l'EUR e il Litorale. Essendo un'arteria più moderna (tre corsie per oni senso di marcia), i palazzi rimangono sullo sfondo intervallati da prati verdi. una volta sull'autobus, le indicazioni richieste risultano incerte: non si sa esattamente dov'è "La Gerit", ma tutti conoscono "Il palazzo dell'ACI dopo Piazza dei Navigatori prima della Fiera di Roma". In realtà Piazza dei Navigatori è sempre in costruzione e la Fiera è stata trasferita, così il palazzo dell ACI si staglia quasi da solo. La vetrata con la striscia azzurra si trova a sinistra, e si distingue per il numero di agenti alla porta. All'interno non si può fare a meno di rimanere colpiti dal soffitto avveniristico ad oblò trasparenti. Ci si aspetta quasi che i cartellizzati non sanati vengano teletrasportati in luoghi "where no man has gone before". Sotto il soffitto un po' Star Trek c'è una grande sala d'attesa: a destra, il banco delle informazioni (prima fila); a sinistra, la fila delle casse; in fondo, i gabbiotti dove si analizzano le cartelle. Se a via Ostiense ancora si sentono squilli di protesta e nervosismo alle stelle, dentro la sala Equitalia molte persone con le cartelle in mano hanno perso le forze: aspettano la loro chiamata come una liberazione. Il loro aspetto va dal completo grigio con le scarpe da passeggio (dipendenti di uffici e agenzie) a un'interpretazione alla buona delle tendenze di moda quest'anno. Molti sono imprigionati dal cavo del telefonino, che sega i vestiti e dà a chi l'indossa un'apparenza più sgualcita dei fogli delle cartelle esattoriali che tiene in mano. Una donna cinese telefona davanti all'ufficio informazioni, e il suo Weei? (pronto?) lo sentono tutti. Si sta come d'autunno seduti sulle sedie, guardando il tabellone appeso al muro che dà i numer(ett)i. C'è una calma irreale, e si aspetta da un momento all'altro l'utente che sbrocca e tenta di recidere la giugulare del riscossore dei debiti, ma ciò non accade. Nel frattempo sperimenti i distributori automatici nella sala, e ti accorgi che non hanno le merendine a base di farro. Evidentemente c'è una correlazione fra il pagare le multe pregresse e non far trovare tracce di farro in ufficio. Alla fine il tuo turno arriva,dopo due ore e mezza, e vieni a sapere che il tuo caso deve essere ancora esaminato e giudicato alla fine del mese. ("Forse che sì, forse che no").


Si esce fuori dal teletrasporto Equitalia sulla Colombo strizzando gli occhi nel sole.

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Piccoli terremoti






Oh, these little earthquakes / here we go again / these little earthquakes / doesn't take much to rip us into pieces



E così a Roma il terremoto non c'è stato.
La giornata si era aperta nella quiete più assoluta - i negozi cinesi sprangati, quasi niente traffico per strada - tanto che si udiva un passero, in bilico sulla canna fumaria che fuoriesce dalla parete del palazzo davanti alla finestra della cucina, cinguettare stentoreo in attesa che un suo collega gli rispondesse. La visione era degna più di un film di fantascienza post-apocalittico, dove il protagonista unico sopravvissuto umano si aggira per le strade in attesa che si appalesino vampiri e zombie (sempre nel secondo tempo, dopo aver mangiato l'ultima Bomboniera.)
Nel pomeriggio ritornavano i sopravvissuti lambendo le strade, e tutto ritornava come prima, mancavano solo i cinesi all'appello. Nel frattempo nel mondo televisivo si sovrapponevano tante piccole scosse telluriche, come la chiusura anticipata di Ciak, si canta! o la sostituzione, causa semifinale di Coppa Italia, della serie I Liceali con la replica del film Titanic , che a sua volta ha generato un'altro piccolo terremoto come il mancato matrimonio di Leonardo Di Caprio con Bar Refaeli.

Altre scossette di assestamento sono state date dalle notizie sempre più esagitate che turbinano nei telegiornali: Bin Laden teneva dei DVD porno sotto al letto, i SIMS sono diseducativi per Giovanardi e Casini, una donna è stata appesa al tredicesimo piano di un palazzo a Roma a testa in giù, un prete è stato arrestato per pedofilia e spaccio di cocaina, a Tremonti non importa un fico secco delle spiagge, il direttore del FMI è saltato addosso a una cameriera d'albergo prima di andare a parlare con la Merkel di quale fine farà la Grecia.
Ora che sono passati quattro giorni, e da due ore un acquazzone ha lavato via definitivamente il ricordo della presunta maledizione-bufala di Bendandi , mi chiedo quali altri terremoti non appariranno sulla terra per poi deflagare in tutto quello che facciamo.
Ah, un terremoto c'è stato. In Spagna.

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Morte di un piccione



Un famoso cortometraggio della Pixar, Pennuti spennati (For The Birds), 2000


Il 15 aprile trovo un piccione accovacciato sul davanzale. E' in grave stato di salute, non riesce a volare, non muove più il collo, cammina appena. Visto che un altro piccione lo aveva scambiato per una femmina consenziente e tentava di montargli sopra, lo prendo fra le mani (si lascia prendere, brutto segno), e lo porto dentro casa, dove cerco di preparargli un riparo in una scatola di scarpe con delle strisce di giornale dentro. Tento anche di nutrirlo con delle briciole di pane, chicchi di riso, quello che trovo in casa. Gli lascio un sottovaso pieno d'acqua. Dopo un po' lo trovo rannicchiato sotto al pianoforte. Respira pesantemente, gonfiando il gozzo e tenendo il capino calcato nel collo. Gli occhi sono neri, fondi, sembra non vedano più. Negli altri momenti della giornata lo vediamo spostarsi ed accovacciarsi sotto alla credenza accanto al muro, o accanto al divano. Così fino a sera.
La mattina seguente lo trovo nel breve spazio fra il divano e la poltrona, morto.
La scatola di scarpe è ora la sua bara.

Questo è un resoconto immaginario dei suoi ultimi momenti di vita.

Buio.
Me ne sto qui al caldo, in un posto che credo di ricordare.
Sono stanco, non ho fame. Perché non ho fame?
Non voglio volare. Perché non voglio volare?

Prima c'era più luce, ero fuori, c'era uno che mi svolazzava intorno, chiamava, gridava, mi voleva montare sopra. Io mi sono acquattato per terra, non riuscivo più a difendermi, scappare, volare via.

Poi mi hanno preso.

Quelli grandi, quelli che non volano.
Io volevo vascondermi, avevo trovato un posto in mezzo a tante cose, c'era odore di piume, mi hanno preso anche lì. Mi sono sentito sollevato anche se non volavo. Mi hanno messo in uno strano posto, vedevo ancora la luce ma non sentivo più l'odore dell'aria aperta. C'erano altri odori che non capivo, altri rumori. Questo posto era stretto, chiuso da tutte le parti e aperto sopra. Io mi sono seduto (ero stanco, come ero stanco) ed ho aspettato. Credo di essermi addormentato. Al risveglio ero ancora lì, e sentivo che quelli erano vicini a me. Io sono uscito a fatica, non riuscivo a muovere le ali, non riuscivo a muovere il collo, prima una zampa, poi l'altra. Ho visto un posto scuro, lucido. Mi sono messo lì. Non sapevo dove andare, era tutto nuovo, non c'era nessuno. Poi di nuovo le voci, quelli sono tornati! Mi sono rintanato dove sentivo che il nero era più fondo, ho insaccato la testa nel collo, gonfiato le piume, e poi ho aspettato. Ho sentito un forte odore di briciole, avrei voluto andarle a prendere, ma il collo non si muoveva. Mi sono venuti a prendere, ho sentito che mi stringevano le ali, sono stato trasportato su una superficie bianca - almeno credo, non vedevo più tanto bene. -
L'odore di quelli era sempre più forte, li sentivo respirare vicino. Avrei voluto fare un salto e ritornare nel buio, così tutto sarebbe finito; mi sono svegliato e mi sono ritovato un'altra volta nel posto stretto e chiuso e aperto sopra.
Accanto sentivo, credevo di sentire, l'odore delle briciole del pane. Ho cercato di ricordare quando questo odore mi guidava verso il cibo, mi faceva andare in picchiata - apri le ali, annusa il vento, sporgi e allunga il collo, tira dentro le zampe, ora sei vicino, scarta a sinistra o finisci addosso al muro, metti le zampe avanti, ripiega le ali, atterra, chi è il bastardo che ha GIA' mangiato tutto? -
Ho tirato fuori una zampa, poi l'altra. Cercando lo spazio che avevo intravisto prima, ho girato intorno a un muro buio, poi a sinistra, poi a destra. Sono vicino al posto scuro e lucido di prima, sto per raggiungerlo, ma no, ora mi voglio riposare in questo angolo tranquillo.

Forse è meglio che stare fuori, ci sono quelle cose nere che girano sempre e ti schiacciano e non ti muovi più (ho visto mia moglie finire così, credo).

Tutto quello che devo fare ora è stare tranquillo, anche se è tutto scuro fuori sono al caldo, quando sentirò la luce avrò la forza di mangiare e di volare ancora.

Ancora.

E quelli mi faranno uscire fuori all'aria.

Ancora.

E beccherò la testa di quel bastardo che non mi lascia in pace.

Ancora.

Buio.

Luce

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Il tram della domenica sera

ROMA nuovo capolinea tranviario alla stazione TERMINI

Il nuovo capolinea dei tram alla Stazione Termini - Roma (foto Alefilobus) (Aaaaargh! Un fantasma attraversa la strada!)

Precedentemente avevo segnalato come le diverse linee urbane avessero una loro personalità. La domenica sera il tram che arriva alla Stazione Termini (Attèrmini per gli indigeni) per poi ripartire direzione Porta Maggiore e Prenestina non ha una personalità, o meglio, soffre di un disturbo di personalità. Tanto per cominciare, i tram la domenica sera non ci sono. Non è che non ci sono veramente, è che il servizio è molto ridotto, così i passeggeri (no: i clienti) attendono sotto la pensilina del nuovo capolinea, dotato delle famose panchine mezzachiappa, progettate per impedire a chicchessia di fare di esse il proprio posto letto. La domenica sera però la maggior parte della gente sta in piedi e occupa tutta la pensilina. Venendo da altri mezzi a Termini, ci si può fare un'idea su da quanto tempo si sta aspettando il tram contando le persone in attesa e quante di esse hanno tirato già fuori il cellulare. Nei pochi metri della banchina confluisce un'umanità altamente rappresentativa del mondo intero, dalle ucraine coi capelli corti, ricci e biondi alle bande di teenagers filippini in stile hip-hop. Un altro gruppo presente è quello degli studenti fuorisede che tornano dalle loro città di provenienza con trolley rigidi con almeno una borsa sopra. Si riconoscono dai turisti con lo stesso trolley perchè tendono ad avere vestiti non "da vacanza" , ma estremamente urbani (gli stivali e il trench corto sono ancora d'obbligo per le ragazze) . Si aggiungono gli africani con il borsone - e questo particolare del borsone-vu'cumprà è talmente introiettato nella gente che ho sentito una signora rivolgersi a un ragazzo con uno "scendi con quel borsone", mentre lui aveva una semplice cartella. Si aggiungono anche acune signorine africane con le extensions intrecciate seguite da un boato: quello delle comitive dei giovani turisti in ciabatte che ritornano in albergo, già gasati e pronti a uscire di nuovo per la serata. Più in basso, le signore peruviane con i figli che hanno i regalini e i palloncini ricordo di MacDonald, e le donne che evidentemente hanno lasciato pezzi di famiglia a casa e stanno disperatamente cercando di raggiungerli via cellulare. Ad altri il cellulare non serve, anche perché hanno uno smartphone da cui consultano playlist con le orecchie ben nascoste dalle cuffie (ora si DEVE VEDERE che si ascolta musica, quindi non rompete).

Il problema,a questo punto della serata, non è più il tram che non passa, ma il momento in cui passerà.

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Secondo semestre

Per il secondo semestre del corso di Laurea Magistrale in Scienze della Traduzione (ora denominato, inspiro, corso di Laurea Magistrale in Lingue Moderne, Letterature e Scienze della Traduzione, l'aria è andata tutta via, finiti i tempi in cui si diceva faccio Lingue ), sto camminando in fretta lungo il tortuoso e accidentato percorso che dal capolinea dei tram 5 e 14 conduce all'incrocio con Viale Einaudi, sede (momentanea) dei jumbo bus 90 e 90 X (Express). In questo percorso si trova una quantità di vita in fermentazione che neanche in uno yogurt. Al centro, due fiumane di gente in ordine uguale e contrario passano in mezzo a degli ombrelli di velluto con sopra appesi svariati orecchini. Ma queste sono cose che si possono trovare in qualunque mercatino. La cosa che salta di più all'occhio sono i venditori di bambole.


Queste bambole sono uscite dai peggior incubo di un negozio di giocattoli; hanno i boccoli modello Baby Jane, il vestitino con sotto i mutandoni, le scarpette in tinta e un'aria paffuta e assente d'altri tempi che oggi definiremmo bisognosa di cure dimagranti. Sembra impossibile che qualcuno assembli ancora bambole così, ma evidentemente c'è un mercato parallelo e carsico che scorre al di sotto delle Winx e delle Bratz. Non bisogna dimenticare il venditore del gadget del pomodoro spiaccicato che ritorna miracolosamente nella sua forma originale; un ragazzo tira in continuazione questo pomodoro su una superficie liscia, il pomodoro si spiaccica, sembra avere tirato le cuoia e invece ritorna come prima.

Mentre si passa e con la coda dell'occhio si vede questo giochino di silicone sbattuto senza pietà che ritorna sempre uguale, viene da pensare alla propria esistenza e a quante volte ci rialziamo apparentemente spiaccicati per poi riprendere a camminare. Supero orecchini bambole e pomodori e mi dirigo verso il 90. So che dovrò scegliere i moduli didattici (ex-corsi) - e mi sembra di vedere tanti mattoncini Lego - però non ho ancora idea di come far quadrare le mie giornate. Una volta sull'autobus mi accade una cosa stranissima: mi cedono il posto. Devo proprio avere l'aria della matusa, nonostante il mio lettore MP4 il cui filo tento di sderrecciare, e allora mi rendo conto che the young ones sono quelli che il filo del lettore, o del cellulare, lo hanno già sbrogliato prima di uscire di casa. Riesco a mettere in moto il lettore ed ascoltare qualcosa due fermate prima che io scenda, dribblando così il violinista ambulante organizzato che viene dall'Est che suona Historia de un Amor che fu composta a Sud.


Scendo dall'autobus e faccio a piedi i due-trecento metri che mi separano dalla facoltà, le persone che mi superano o che mi vengono incontro mi sembrano tutte venire da un altro mondo; non che siano vestite poi in modo tanto diverso da come ero vestita io - che del resto non ho mai brillato per modaiolità - , ma che hanno una specie di aura invisibile addosso, come se scorressero su dei binari differenti e invisibili. Varco la soglia e faccio la piccola salita asfaltata a losanghe in rilievo con i sassolini dietro ciascuna losanga, e svolto a sinistra. Mi aspettano cinque scalini, poi una rampa di scale. Arrivata all'ultimo scalino mi accorgo di una cosa: mi fa male il ginocchio sinistro. Vorrei prendere l'ascensore, ma mi vergogno. Inoltre non mi fido degli ascensori pubblici. Mentre faccio queste meditazioni uno studente preme il bottone di chiamata dell'ascensore. A che piano sale? Fa lui. Io allora mi piego da una parte per giustificare il fatto che alla mia età, sì, è giusto prendere l'ascensore. Al primo, grazie. Poi, senza riprendere fiato: Dovrei andare a piedi, ma mi fa tanto male il ginocchio! . La mia interpretazione della vecchietta del cacao Talmone
sta facendo scintille. Solo che il mio interlocutore non se ne accorge e mi risponde neutro: Non c'è problema! L'interpretazione era troppo perfetta.


Primo piano (quello di Lingue: il secondo, più rarefatto, è da sempre di Filosofia). Giro a destra, riavvolgo con mano lesta il cavo dell'auricolare intorno al lettore, apro la borsa, estraggo il cellulare, lo tiro fuori dall'astuccio fatto da me all'uncinetto - per il quale mio padre fece questo commento: quanto ci hai messo a farlo? Due ore? Hai perso due ore di tempo. - e vado davanti alla porta dell'aula dove dovrebbe esserci la lezione. Dovrebbe, perché ho dei dubbi. Ci sono troppe poche persone. Stai a vedere che ho sbagliato sede. Entrando ho una specie di tremore, come se le persone sedute dietro ai banchi nelle strette seggioline pieghevoli si debbano alzare tutte assieme per cacciarmi via. Questo stato momentaneo di paranoia svanisce però non appena dopo cinque minuti entra un'altra persona che riconosco come mia simile. Ne ha tutte le caratteristiche; innanzitutto porta una borsa con cui potrebbe benissimo trasportare i broccoletti dal mercato; si guarda intorno per vedere qual è il posto migliore per assistere alla lezione ed eventualmente alzarsi prima che finisca per non dare fastidio, chè deve tornare a casa per soddisfare gli altri pezzi della sua vita; non parla con nessuno e dispone quaderno e penna davanti a sè come nei documentari televisivi sulle scuole rurali del Terzo Mondo (gli altri studenti salutano i colleghi o lanciano messaggini). Infine, una volta sicura della sua postazione, si toglie il cappotto.

Non siamo soli nell'universo.

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Il giorno dopo



Medico di base, sala d'aspetto:


"lo vogliono fare fuori"
"Era ora, con tutto quello che ha combinato"
"Ma l'alternativa qual'è? Lui almeno ci sa fare, sa come si fa..."
"Ha fatto credere agli italiani che sarebbero diventati tutti ricchi come lui, e ora guarda dove siamo arrivati"
"Quell'altro poi, con la casa a Montecarlo!"
"La casa era del cognato"
"La moglie è andata prima col figlio, poi col padre, s'è fatta intestare tutto..."
"L'altra casa, quella al Colosseo?"
"Sì, quella che è stata pagata 'a sua insaputa' "
"Lei era sua vicina, stava esattamente al piano di sopra"
"L'avrà pagata lei, la casa"
"Ma scusa, non gliel'aveva regalata lo sceicco?"
"I cinesi si sono presi tutto"
"Ma quelli che hanno venduto si sono presi dei bei soldi"
"Alle sette qui, c'è il coprifuoco. Un tempo i negozi erano aperti fino alle dieci..."
"Lo sapete che hanno incendiato un negozio?"
"Chi?"
"I cinesi! Loro non volevano vendere il negozio, e allora quelli glielo hanno bruciato, così loro sono costretti a stare in un negozietto!"
"La mafia cinese non perdona..."
"Perché, quella russa?"
"Quattrocentsessanta euro di asilo nido, e ho pure fatto l'ISEE! E sapete cosa hanno dato da mangiare a mio figlio? Riso col latte, e frittata! Quando torna a casa non fa altro che mangiare tutto il pomeriggio!"
"Tutti ora fanno l'ISEE, pure quelli che prima non lo facevano!"
"E ci si meraviglia che non si fanno più figli"
"Ma si può dare da mangiare 'sta roba a quattrocento e passa al mese?"
"E' meglio un bel cestino, si spende di meno!"
"Che poi ingrassano!"
"Io vivo con mia suocera da ventitrè anni, ho detto tutto"
"Dov'è un bagno?"
"Chieda la chiave alla segretaria..."

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Siringhe (" 'Sta mano può ésse féro... ")



Il vero uomo si riconosce non dalle intenzioni, ma dalle iniezioni.
Da piccolisimi ci portavano tutti all'ambulatorio per farci fare il vaccino Bivalente (Difterite e Tetano) che poi doveva essere ripetuto alcuni anni dopo: lo chiamavano il Richiamo della Bivalente. Il nome suonava un po' spaghetti western (Amico, è tornata la bivalente: hai chiuso un'altra volta! ), e mentre il Richiamo della Polio era più accettabile - consisteva in uno zuccherino intriso di vaccino - la perfida Bivalente era invece una vera iniezione. Il mio ricordo più antico di una siringa consiste in me che correvo intorno al lettino dell'ambulatorio (a quattro anni) inseguita da mia madre e dal dottore perchè non volevo farmi fare la puntura. Le siringhe indolori erano al di là da venire, e agli occhi di una quattrenne gli aghi apparivano grandi come i primi piani delle zanzare nei documentari sulla malaria.
Un'altro ricordo che avrebbe pesantemente condizionato la mia opinione sulle punture fu dato dalla scena di un film, Tornando a casa (Hal Ashby,1978) , in cui uno dei personaggi si ammazzava iniettandosi dell'aria in vena con una siringa. La scena, commentata da un'ossesiva White Rabbit dei Jefferson Airplane, era terrificante, e contribuì non poco alla mia naturale antipatia verso le iniezioni.
Senza scomodare la famosa sequenza dell'iniezione di adrenalina nel cuore di Uma Thurman in coma da overdose in Pulp Fiction (e adesso vado a casa a farmi venire un infarto),


ho dovuto vivere, quasi per una sorta di contrappasso, le emozioni del preparare una siringa e fare un'iniezione. Intramuscolare. Con l'ago grosso. Una siringa da 5cc.
La prima difficoltà è quella di rompere la fiala con la soluzione da iniettare. Un tempo le fialette di vetro monodose con la strozzatura al centro erano fornite di un microseghetto atto a segare il vetro in due e ad aprire la fiala. Così prendo un coltello da cucina e sull'acquaio dò dei colpetti con la lama sul punto più sottile, sperando che ceda (segare il vetro col coltello è impossibile, e provare con le mani è come spaccare una noce tenendola in pugno: si rimane con niente in mano, con l'aggravante che i frammenti di vetro possono penetrare nella pelle). Quando uno meno se l'aspetta la parte superiore cede e piccoli frammenti luminosi si spargono sul
lavandino. Li cerco e li tolgo tutti nella malaugurata ipotesi che me li
possa trovare conficcati in mano. Apro la confezione protettiva e tiro fuori la siringa. Il tappo di sicurezza è la cosa più difficile da sfilare, infatti non si deve sfilare ma farlo ruotare e poi sfilarlo piano per non piegare l'ago in due (come ho saputo poi a mie spese).
Tolgo l'aria dall'ago una, due volte. Poi infilo l'ago nella fiala. Attenzione, non è una cosa facilissima risucchiare la soluzione nella siringa, dato che occorre tirare su lo stantuffo in modo lento ma continuo.
A questo punto la siringa - una volta accertato che non vi sono bolle d'aria - è pronta per l'uso, e qui avviene la seconda battaglia. Nei film la puntura si fa sempre nel gluteo (Sedadavo? Domanda Igor in Frankenstein Jr. con la Creatura in escandescenze). In realtà va fatta sopra, nella zona dorso-gluteale .


Massaggio la zona lungamente col disinfettante, dopodichè col cuore in gola cerco un posto abbastanza "carnoso" dove conficcare l'ago, e qui mi ricodo del pizzico di Mario Brega in Bianco, Rosso e Verdone (1981, Carlo Verdone). ('Sta mano può ésse féro e può ésse piuma. Oggi é stata 'na piuma.)


Pizzico la carne. Infilo l'ago. Mi aspetto l'urlo. L'urlo non arriva. Ho già fatto un morto? No, respira ancora. Spingo lo stantuffo e inietto lentamente il liquido. Mi sforzo di non pensare. Ecco, la parte finale dello stantuffo ha toccato l'ago. Ho finito!
Tiro fuori - o meglio, snudo fuori l'ago della siringa dalla carne che stringo fra le due dita. Esce tutto. Massaggio per cinque minuti buoni la zona sperando di aver messo la gamba nella posizione migliore. Mi sembra di aver fatto una complicatissima operazione chirurgica, vorrei che qualcuno mi detergesse il sudore dalla fronte come fanno nelle sale operatorie, ma mi accorgo di non avere nessuna fronte sudata. Sarei un pessimo chirurgo.
Infilo il cappuccio all'ago prima di gettare la siringa. Il batuffolo di ovatta giace strizzato e strapazzato senza pietà accanto ai frammentini della fiala. Le mie mani sanno inesorabilmente di disinfettante. Sembrava che il sedadavo lo avessero dato a me.