Non ci sono vestiti nuovi al Centro.
Nelle riunioni settimanali i pazienti e i loro parenti si confrontano, ascoltati e consigliati da operatori e psichiatri. Cercano tutti di tirar fuori quello che hanno dentro, e stanno in una grande stanza con una piccola biblioteca a sinistra. Le sedie sono in cerchio, in modo che ognuno possa vedere e non dare la schiena all’altro. Su un tavolino ci sono delle caraffe termiche con tè, caffè americano e dei dolcetti.
In realtà tirar fuori quello che si ha dentro, ed essere contemporaneamente guidati in modo da esprimere un pensiero articolato, non è roba facile. Sai di essere lì con altre persone che possono avere problemi anche più o meno grandi dei tuoi, e se sei un paziente sei accompagnato da un parente il più delle volte, e devi spiegare le tue sensazioni riguardo alla malattia. Il mondo della moda non entra al Centro e i pazienti finiscono per avere tutti un look particolare, come se a vestire loro ci abbia pensato qualcun altro dopo lunghe e ripetute rimostranze. Vi sono camicie aperte sul petto villoso o chiuse fino all’ultimo bottone, pantaloni tenuti su da bretelline da film muto che scoprono scarpe senza calzini, giacche tirolesi e magliette alla marinara, vestiti a fiori e scarpe da allenamento che hanno visto giorni migliori (o forse mai). I parenti si dividono invece in due categorie: quelli che si aggirano in felpa e calzoni e giubbotto, e altri che invece vogliono mantenere un controllo apparente all’esterno: così vestono maglioncini abbastanza attillati, trucco e capelli ossigenati (per le donne) e stivali col tacco. Prende la parola una madre, e con le mani in grembo sintetizza in cinque minuti una vita di dolore appresso alla figlia che ha cominciato le sue prime crisi dopo i diciott’anni, dieci ore di lavoro tutti i giorni, non riusciva più ad andare a scuola, quand’era piccola le avevamo comprato un’enciclopedia perché si istruisse…Il marito tace, tutt’uno con la sedia, si capisce che è la moglie a titare le fila di tutto e se ne sta lì sulla sedia a raccontare e raccontare come se fosse su un palcoscenico, finchè il dottore non la interrompe sintetizzando in qualche modo il suo pensiero per permetterle di pensare ed essere ricettiva al mondo. Un’altra madre ha un completo nero e puntualizza con una lunga introduzione i problemi del figlio. Il figlio, un ragazzone massiccio dalle labbra piene puntualizza ripetendo ogni tanto due volte quello che dice, con quell’ansia che di solito hanno i pazienti di non lasciarsi scappare nessun particolare. Vengono rivelate giornate tremende, porte sbattute, crisi notturne, litigi e urla ; il tono è allo stesso tempo minimizzante e ansioso di essere preso sul serio. Un altro paziente racconta di come è riuscito a pagare un bollettino alle poste, nonostante lo scetticismo di sua madre; ha il plauso di tutti i presenti, anche fra i pazienti vi sono quelli più desiderosi di apparire e quelli che se ne stanno per conto loro. I piedi stanno tutti fermi, le scarpe inchiodate al pavimento. Uno dei pazienti si addormenta di colpo, mentre altri due discutono animatamente sul significato dell’esperienza, e non sono d’accordo in niente.
I dottori vestono in modo rassicurante, con maglioni e jeans dai colori neutri, gli occhiali appesi al collo, le dottoresse amano mise che non le possano caratterizzare più di tanto, ma che abbiano un aspetto curato. Ogni tanto però aggiungono dei piccoli particolari, come un foulard, o un paio di occhiali con la montatura colorata.
Non voglio crescere. (Sorride di un sorriso etrusco e abbraccia l’operatrice)
Lo sappiamo, ma se i tuoi genitori non ci saranno più come farai?
Il discorso di dipana e si intreccia per poi dipanarsi di nuovo, e ognuno cerca di trovare il bandolo della sua matassa, con le stoffe dei vestiti sempre un po’sgualcite. Le borse sono a terra, o abbarbicate ai loro proprietari, come se fossero un organismo unico. Quando arrivano le undici e mezza si sa solo che non si è arrivati a niente, ma che per tre ore ci si è guardati in faccia. E per una volta, la locuzione “guardarsi in faccia” non sembra una metafora dell’inutilità.
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